22 Febbraio 2023

Che razza di libro!

Vincitore del National Book Award 2021

Questo libro è per chi ha inventato un pianeta senza nome, un luogo felice dove riconoscersi e sentirsi finalmente a casa.

“Volevo solo che mi vedessi.” È una cosa bellissima da dire a una persona. Non è quello che vogliamo tutti? Essere visti?

 

Uno scrittore americano ha appena pubblicato un libro di successo: durante il tour promozionale, fra interviste, avventure amorose e sbronze colossali, incontra un ragazzino dalla pelle nerissima che da quel momento in poi lo segue come un’ombra. A ogni tappa il Ragazzino racconta qualcosa di sé, affermando che i suoi genitori gli hanno insegnato a diventare invisibile, per proteggersi dalla brutalità del mondo. E in effetti, lo scrittore è l’unico in grado di vederlo, ma poiché è affetto da una strana malattia che gli impedisce di distinguere la realtà dal sogno è certo che si tratti di una semplice allucinazione. Ben presto, però, le sue visioni hanno il sopravvento, mettendolo di fronte a un passato che da sempre cerca di sfuggire, una verità che preme per liberarsi e ritrovare corpo e voce. Commovente e feroce, esilarante e tragico, Che razza di libro! è la storia di un bambino che vede nell’invisibilità una promessa di vita, e di un uomo che vorrebbe uscire dalla propria pelle, per nascondersi dalla violenza. Con una lingua brillante e arguta, Jason Mott mette a nudo discriminazione e pregiudizio, mostrandoci la possibilità di un mondo dove il colore non è più un confine.

COME COMINCIA
Nell’angolo del piccolo soggiorno della piccola casa di campagna in fondo alla strada sterrata sotto il cielo azzurro della Carolina, il bambino di cinque anni dalla pelle scura se ne stava seduto, con le braccine scure strette attorno alle ginocchia, e cercava con tutte le forze di reprimere la risata nella gabbia pulsante del suo torace.
Sua madre, seduta sul divano con le mani scure in grembo e la fronte corrugata come i campi del signor Johnson a fine inverno, strinse le labbra e cincischiò con la stoffa lisa dell’abito grigio che indossava. Era un vestito che aveva comprato prima ancora che il bambino nascesse. Invecchiava insieme a lui. Anno dopo anno la fantasia a fiori azzurri sbiadiva, una sfumatura alla volta. I fili lungo l’orlo perdevano la presa sulle cose. Si rompevano e allungavano i loro colli ciondolanti in tutte le direzioni che potevano. E ora, dopo sette anni di duro lavoro, sembrava che l’abito non sarebbe riuscito a tenere insieme la stoffa ancora per molto.
«L’hai trovato?» chiese la madre del bambino quando suo marito entrò nella stanza.
«No» disse il padre del bambino. Era un uomo alto, con gli occhi grandi e un corpo lungo e dinoccolato che da piccolo gli aveva procurato il soprannome di “negro più magro del mondo”. Il nome gli era rimasto addosso negli anni, una frustata sulla schiena dall’infanzia all’età adulta, e non avendo mai trovato una cura per la sua magrezza quasi leggendaria, l’uomo aveva preso a indossare indumenti con le maniche lunghe ovunque andasse, perché il vuoto dentro le maniche lo faceva sembrare più grosso. O almeno, così credeva lui.

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